Berlino, Staatsoper im Schiller Theater, “Tannhäuser” di Richard Wagner
Due maestri per un Tannhäuser
E’ fra gli eventi più attesi della scena berlinese il nuovo Tannhäuser della Staatsoper affidato a due grandi interpreti della musica e della danza contemporanea, Daniel Barenboim e Sasha Waltz, di nuovo insieme dopo il successo del Sacre du printemps dello scorso autunno. La coreografa tedesca si è già cimentata nella regia per il teatro d’opera (il suo Dido e Eneas del 2004, prossimamente in scena a Berlino, è un cult) ma è la prima volta che affronta un’opera così monumentale e impegnativa.
Nella quasi oscurità vediamo due cerchi quasi concentrici, potrebbero sembrare due pianeti, che lentamente acquistano definizione e suggeriscono l’interno di un imbuto bianco, di un utero o la carlinga di un aereo in cui scivolano come insetti una ventina di danzatori seminudi che, col progredire del baccanale (l’allestimento segue l’edizione di Dresda con l’inserimento del baccanale della versione di Parigi), simulano accoppiamenti orgiastici. Si contorcono, si avviluppano a grappolo, si tendono in diagonale, scivolano lungo le pareti di lamiera illuminata da una luce abbacinante fino a che non appaiono dall’alto anche Tannhäuser e Venus che si uniscono ai movimenti sensuali dei danzatori.
Le luci si abbassano e il mondo di Venere si allontana, dopo aver “espulso” Tannhäuser sul palcoscenico, che nella fredda oscurità indossa un grigio cappotto per affrontare il mondo dei cantori borghesi.
Fra nubi di fumo turchesi e azzurrine (stupefacenti le luci di David Finn) si materializzano pellegrini che si rotolano a terra per poi rialzarsi in un iterato rituale, battono le mani al cielo con un fremito da volo di uccello, si percuotono ritmicamente il corpo o passano le mani sulla testa in segno di purificazione e “doppiano” il coro con una tale sintonia che non è chiara la linea di confine fra coristi e danzatori.
Dei tre atti il primo è quello meno riuscito, il baccanale è troppo lungo e le coreografie risultano ripetitive; inoltre mentre Venere, slanciata e sensuale con una chioma rossa Tiziano e un abito drappeggiato color champagne si armonizza coi ballerini, Tannhäuser, dal fisico massiccio da tipico tenore wagneriano, in camicia e pantaloni di lino, fa sorridere.
Nel secondo atto, la scena di Pia Maier-Schriever (e della stessa Waltz), è una sorta di omaggio allo Schiller Theater e alla sua architettura anni ‘50 dominata dal legno con canne di bambù appese che delimitano lo spazio con un suggestivo effetto di pieni e vuoti evocando una gabbia dorata o che un’arpa, una lira o un organo. Elisabeth, in abito da ballo azzurrino, collier di perle e lisci capelli biondi con cerchietto, è una principessa triste che ricorda tanto Grace Kelly, seduta su di una fila di poltrone da teatro nella penombra della “teure Halle” in trepida attesa. Fenomenale come la scena si riempia in un vortice danzante di figure in vaporosi abiti anni ’50 (elegantissimi e cinematografici i costumi di Bernd Skodzig). Il lavoro della Waltz è sul corpo, ma soprattutto nella gestione dello spazio e il movimento scenico si fa architettura, in un continuo farsi e disfarsi: i ballerini funzionano da sedute, da quinte, ma anche da commento ironico di quanto espresso da musica e situazione. Sembra che sia la musica, trascinante e avvolgente, a riempire lo spazio in una girandola hollywoodiana dove, fra convenevoli, perbenismo anni ’50 e trasgressione, s’intrecciano cantori, nobili, dame e ballerini in un danzare fluido e leggero che risulta assolutamente speculare alla levità che il direttore ottiene dall’orchestra.
Nel terzo atto la scena è vuota, luce e fumo fanno progressivamente emergere in un corteo funebre i pellegrini in tuniche grigie che, sotto la luce livida, sembrano figure di creta e cenere da mistero medievale. Elisabeth si aggira dimessa per la scena senza una direzione, si leva le scarpe per inginocchiarsi a pregare e Wolfram le si accoccola vicino per aiutarla a rialzarsi, ma, rimasto solo, si mette a giacere rannicchiato vicino alle sue scarpe-reliquie. L’atmosfera è cupa e senza speranza, la scena si riaccende solo quando riappaiono Venere e il suo corteo sul pavimento di rame che ne illumina gli orgiastici bagliori per poi spegnersi nella lacerazione e morte di Tannhäuser, su cui monache poseranno verdi mazzolini. Redenzione?
Alla prima a cui abbiamo assistito la “regista” Sasha Waltz è stata parzialmente contestata, forse per la preponderanza della coreografia, per non avere approfondito tutti i livelli della storia e per l’uso di, a nostro avviso volute, ripetizioni. Inevitabilmente lo spettacolo ha un segno coreografico forte, ma è ben integrato con musica e testo e sembra che la coreografa vada subito al punto con un’immagine evocativa capace di raccontare la storia.
A noi lo spettacolo è piaciuto molto e non rimpiangiamo quegli eccessi di psicologismi in cui talvolta inciampa il teatro di regia tedesco.
In ruoli wagneriani Peter Seiffert è uno dei beniamini del pubblico berlinese: la voce è decisamente ampia e ricca dello squillo necessario per un cantore e, se all’inizio si riscontra qualche sbavatura nell’intonazione, trionfa nel terzo atto per la capacità di tenuta vocale unita a sensibilità drammatica: quello che piace di Seiffert è che riesce, forte di una lunga frequentazioni con il ruolo, a rendere col suo canto sia la componente più intima e introspettiva che quella più eroica di Tannhäuser.
Ann Petersen convince per la sensibilità d’interprete: la sua Elisabeth è decisamente umana e mostra la disillusione della donna ferita, la voce non ha timbrica particolarmente caratterizzata e non è esente da vibrato, ma canta correttamente superando tutte le insidie del ruolo.
Da seguire Marina Prudenskaya, Venere snella e seducente, dalla voce brunita di volume considerevole: l’avevamo già sentita qui nel Trovatore, ma ora ci ha convinto maggiormente.
Un plauso a Peter Mattei, Wolfram von Eschenbach eccellente per la voce ricca di armonici e la capacità di coniugare musica, parola e azione scenica: il momento più intenso della serata è la sua “Abendstern”, oltre che per il canto cesellato di straziante dolcezza, per i movimenti di danza (è con lui che la Waltz ha ottenuto i migliori risultati) impressi da Mattei nello spazio alla ricerca di un impossibile abbraccio col vuoto ed è proprio da questi gesti che accompagnano la miniatura liederistica che scaturisce l’evoluzione del personaggio e la sua originalità.
Come prevedibile René Pape è un Hermann impeccabile, di grande statura vocale e morale, dalla voce profonda di timbro rotondo che disegna un langravio nobile e misurato.
Bene anche Peter Sonn per avere donato giusto lirismo a Walther von der Vogelweide. Tobias Schabel è un Biterolf volutamente antipatico. Sónia Grané è un pastorello dalla voce limpida e gradevole. Concludono il cast l’Heinrich di Jürgen Sacher e lo Reinmar von Zweter di Jan Martinik.
Fin dalle prime battute Daniel Baremboim conferma una sensibilità difficilmente eguagliabile nel repertorio wagneriano. La sua direzione è morbida e rotonda, fluida e leggera, il “suo” Wagner è tutto un colore e una sfumatura, dove convivono in equilibrio peso e trasparenza, luci e ombre, cura del dettaglio e visione d’insieme. I tempi sono larghi e distesi, ma nulla viene sacrificato alla dinamica o alla tensione narrativa e la partitura trasuda energia. Straordinaria la voluttà di suono della Staatskapelle e ottimo, oltre che per l’impegno coreografico, il coro della Staatsoper preparato da Martin Wright. Tutti giovani e talentuosi i diciotto ballerini della compagnia Sasha Waltz & Guests provenienti da diversi paesi del mondo fra cui spiccano anche due italiani (Nicola Mascia e Davide Camplani).
Alla prima standing ovation da parte di un pubblico delle grandi occasioni in onore del cast e soprattutto del Maestro con, a sorpresa, qualche buh per la Maestra.
Visto a Berlino, Staatsoper im Schiller Theater, il 12 aprile 2014